Il lavoro remoto come opportunità per i territori rurali
A Grottole, in Basilicata, ospitiamo, per periodi medio-lunghi, dei lavoratori da remoto. Lo facciamo nelle due camere disponibili nella nostra Wonder Casa, con una modalità che abbiamo chiamato rural coliving. E stiamo muovendo i nostri passi verso un modello sostenibile per ospitare nomadi digitali in simbiosi con tutta la comunità locale.
Il lavoro remoto è sempre più diffuso, e ha ripercussioni importanti sulla qualità della vita dei lavoratori e sui territori che stanno intercettando i flussi di nomadi digitali che dalle grandi città hanno iniziato a spostarsi alla ricerca di una migliore qualità della vita.
Il nomadismo digitale è un fenomeno controverso, ad esempio in Portogallo l’aumento del costo della vita per la comunità locale dovuto all’arrivo di expat dagli Stati Uniti sta iniziando ad attirare diverse critiche. Il lavoro remoto, se gestito bene, può creare opportunità di sviluppo sostenibile per le aree rurali e le piccole città.
Alcuni nomadi passano periodi più lunghi in uno stesso posto alla ricerca di una connessione profonda con la comunità locale, portando nuove competenze e stimoli culturali ed economici nelle periferie di un mondo urbano-centrico. Diventano un’opportunità per territori e comunità ospitanti.
Ma chi sono i nomadi digitali? Ce lo siamo chiesti e abbiamo fatto un po’ di ricerca.
Il nomadismo digitale come fenomeno sociale
I nomadi digitali sono persone che usano la tecnologia per lavorare da remoto, adottando uno stile di vita non vincolato a un luogo specifico. Già nel 1997, Makimoto e Manners avevano intuito che in un futuro globalizzato le nuove tecnologie avrebbero reso possibili nuove relazioni tra lavoro, tempo libero e viaggio, ma è solamente con la pandemia da Covid-19 e la diffusione del remote working per ampie fasce della popolazione che questo stile di vita ha preso piede in modo consistente.
I nomadi digitali spesso combinano uno stile di vita da lavoratore e da backpacker, viaggiando e esplorando nuove destinazioni. In particolare i social media come YouTube, Instagram e TikTok hanno contribuito a dare sempre più visibilità al nomadismo digitale, con svariati influencer e travel blogger che hanno iniziato a raccontare le loro avventure in giro per il mondo promuovendo questo stile di vita (spesso in modo romanticizzato e senza mostrare ai loro follower la whole picture).
Misurare le dimensioni del fenomeno non è semplice, ma secondo una ricerca di MBO Partners del 2020 la maggior parte dei nomadi digitali appartengono alla generazione dei Millennial (ben il 42%), seguiti dalla Gen X al 22% e dalla Gen Z al 19%, mentre i baby boomer rappresentano solo il 17% dei nomadi digitali. Sempre secondo la stessa ricerca, alcuni dei principali settori in cui lavorano i nomadi digitali sono l’informatica (12%), l’istruzione e la formazione (11%), la consulenza, il coaching e la ricerca (11%), le vendite, il marketing e le pubbliche relazioni (9%) e i servizi creativi (8%).
Tuttavia quello del nomadismo digitale è un fenomeno ancora in piena evoluzione, che risponde a una crescente insoddisfazione per il mondo del lavoro tradizionale e alla ricerca da parte delle nuove generazioni di un migliore work-life balance, basti pensare alla great resignation o al quiet quitting, e ogni nomade digitale ha motivazioni diverse (in genere molto personali e legate al proprio percorso di vita).
Il nomadismo digitale come opportunità per i territori
Il lavoro a distanza e la diffusione di connessioni veloci hanno il potenziale per creare una sorta di cyber-utopia in cui poter vivere in un luogo senza traffico, inquinamento e sovraffollamento urbano, magari con accesso a prodotti alimentari più freschi e salutari e in generale a una qualità della vita migliore. In Italia queste riflessioni hanno preso piede con il dibattito sul Southworking: rilanciare i piccoli paesi del sud Italia come luogo in cui vivere mentre si continua a lavorare per le grandi aziende con sede al centro-nord o all’estero.
Alcuni territori stanno provando a intercettare attivamente questa nuova tendenza del mercato del lavoro. Sono nate vere e proprie iniziative per attrarre nomadi digitali e remote workers offrendo servizi come co-working e co-living, ma anche incentivi fiscali.
A Venezia il turismo è una delle principali fonti di occupazione, ma è anche una delle principali fonti di gentrificazione che ha portato la popolazione residente nel centro storico a scendere per la prima volta sotto i 50.000 abitanti nel 2022. Proprio per attrarre nuovi residenti, seppure temporanei, è nato il portale Venywhere. L’iniziativa è pensata per attirare le persone che possono lavorare da qualsiasi luogo, come freelance o remote workers, offrendo uno sportello unico dove persone e le aziende interessate a stabilire la propria casa o sede a Venezia possono trovare informazioni rilevanti e accedere a una serie di servizi specifici: luoghi dove lavorare, luoghi dove dormire, esperienze autentiche da fare con le persone del posto, e un aiuto con per sbrigare le questioni burocratiche.
A Madeira, in Portogallo, è nato il programma Digital Nomads Madeira Islands che offre spazi di lavoro gratuiti, una tassazione ridotta, e una connessione ad internet veloce. Oltre a una community Slack, una serie di eventi esclusivi, accesso a posti in cui dormire convenzionati, e soprattutto alla figura del local host che si occupa di mettere in contatto nomadi digitali e comunità locale.
Un modello unico da seguire non esiste, ogni territorio ha le sue specificità e la sua comunità da saper ascoltare. A Grottole abbiamo la fortuna di avere un rapporto uno ad uno con i nostri ospiti e di poter raccontare le loro storie, lo abbiamo fatto con Capucine da Parigi in questo articolo e continueremo presto con Wilko, che ha scelto Grottole per passare qualche mese lavorando da remoto in attesa di sviluppare un suo progetto di cohousing ad Amburgo.